Gli opposti schieramenti nella zona di El Alamein. Su questo fronte desertico, che si estendeva per circa 80 chilometri dal mare all'invalicabile depressione di El Quattara, si svolse fra l'agosto e il novembre del 1942 la lotta decisiva fra gli eserciti italo-tedeschi e quelli dell'Impero britannico. Le armate di Rommel e di Bastico tentarono dapprima, nello agosto, di sfondare le linee sulle quali i britannici si erano attestati dopo la precipitosa ritirata dalla Cirenaica. Poi, alla fine d'ottobre, gli inglesi passarono all'offensiva, gettando nella lotta il peso di tutta la loro crescente forza militare. Infatti, mentre il corpo di spedizione italo-tedesco in Africa settentrionale veniva rifornito a fatica, con gravi perdite, dai pochi convogli che riuscivano a superare il blocco aero-navale, gli inglesi avevano potuto richiamare nel Delta del Nilo masse imponenti di uomini e di mezzi sia dal territorio metropolitano, sia dal Medio Oriente, dall'India, dal Sud Africa, dall'Australia: da tutte le parti del Commonwealth, insomma. Al loro fianco erano poi anche reparti francesi, polacchi, greci e aliquote dell'aviazione americana con i nuovissimi quadrimotori « Liberators ». Data la sproporzione di forze, la battaglia non poteva avere che un esito sfortunato per l'Asse. Ma per raggiungere la vittoria le forze britanniche, che erano comandate dal Generale Montgomery, dovettero lottare lungamente e duramente, contrastate passo passo da alcune tra le più belle divisioni della storia militare italiana delle Campagne d'Africa e dai panzer del generale Rommel, la « Volpe del deserto ».
LA BATTAGLIA DI EL ALAMEIN
Alla fine di agosto del 1942 il maresciallo Rommel, comandante delle truppe italo-tedesche dell'Africa settentrionale, tentò, lanciando una grande offensiva contro le posizioni britanniche di El Alamein, il colpo che aveva mancato pochi mesi prima quando era giunto su quelle fatali posizioni con un pugno di uomini e qualche carro armato inseguendo il nemico in ritirata. Rommel era consapevole che questa sarebbe stata, quasi certamente, l'ultima buona occasione che il destino gli offriva. Conosceva infatti il progressivo potenziamento dell'armata britannica, rinforzata da numerosi reparti affluiti nel Delta del Nilo da ogni parte dell'Impero ed attestata su formidabili posizioni difensive. L'offensiva iniziata il 30 agosto quindi si basava sostanzialmente sull'elemento sorpresa e sulla speranza che le qualità manovriere della nostra armata corazzata avrebbero potuto sopraffare l'avversario malgrado la situazione obiettivamente difficile. Purtroppo il calcolo si dimostrò errato. Nelle precedenti campagne Rommel aveva operato su terreno libero, manovrando i suoi carri in azioni a vasto raggio. Ad El Alamein dovette invece agire su un fronte ristretto, limitato a nord dal mare e a sud dalla invalicabile depressione di El Quattara, e non ebbe quindi la possibilità di manovrare sui fianchi, secondo la sua tattica preferita. Con una conversione a nord, tuttavia, Rommel tentò di tagliare fuori l'ala settentrionale dello schieramento nemico. La manovra, di brillante ed originale ideazione, falli per tre fattori diversi: 1) l'esistenza di estesissimi campi di mine, predisposti dagli inglesi, i quali costrinsero le truppe corazzate a lunghe soste e ritardarono la conversione a nord, dando al nemico la possibilità di far affluire notevoli riserve; 2) la schiacciante superiorità aerea nemica, che inflisse alle truppe avanzanti gravi perdite (morirono nell'azione ben tre generali: Niccolini, comandante del « XX Corpo », Nehring, comandante del Corpo corazzato tedesco e Bismarck, comandante di una divisione corazzata); 3) il consumo di nafta, superiore di tre volte a quello previsto. Quest'ultimo fattore, secondo Rommel, fu quello decisivo. Infatti, proprio nel vivo dell'azione, giunse al nostro comando la notizia che i piroscafi con i rifornimenti idi nafta per le truppe operanti erano stati criminosamente segnalati, e affondati e che i depositi dell'Africa settentrionale non erano in grado di alimentare la battaglia. Pochi giorni dopo la cessazione dell'offensiva italo-tedesca, passarono all'attacco gli inglesi. La prima azione fu di limitate proporzioni ma di grande importanza strategica: un'operazione di « commandos » contro Tobruk, nell'intento di distruggere le installazioni del porto, il quale era allora la nostra principale base di rifornimento. La manovra falli, grazie all'eroica reazione delle truppe del presidio e principalmente del battaglione « San Marco », ma fu ugualmente il preludio ad un'azione ben più vasta, che si scatenò a poco più di un mese di distanza: l'offensiva generale britannica ad El Alamein. L'attacco ebbe inizio la sera del 23 ottobre 1942. Il momento era ben scelto. Gli inglesi sapevano infatti che le nostre truppe erano in crisi, per le crescenti difficoltà dei trasporti marittimi, e che ben difficilmente avrebbero potuto avere rinforzi dai tedeschi, i quali erano impegnati con tutta la loro aviazione e con imponenti forze corazzate nella battaglia per la conquista di Stalingrado. Per colmo di sventura, poi, Rommel era in Germania e il gen. Stumme, suo sostituto, era stato ucciso nelle prime ore della battaglia. Questa superiorità si rivelò subito, quando bocche da fuoco di tutti i calibri, schierate su appena 12 chilometri di fronte, rovesciarono sulle nostre linee un uragano di fuoco senza precedenti. Dopo questo bombardamento, dai micidiali effetti distruttivi, gli inglesi passarono all'attacco con una tattica nuova per l'Africa ma copiata dalle battaglie della prima guerra mondiale. Niente azioni in profondità di unità carriste. Niente rapidi movimenti aggiranti, in una fitta rete di schermaglie, di attacchi e di contrattacchi. Le truppe britanniche, rinforzate da elementi tratti da ogni angolo dell'Impero (australiani, sud-africani, indiani) e da due brigate francesi e greche, andarono all'attacco delle nostre linee, logorando sistematicamente una ad una le posizioni italo - tedesche, mentre il fuoco delle artiglierie non soltanto impediva ogni accenno di contrattacco da parte nostra, ma provocava anche paurose distruzioni. Quando questa prima ondata di attacco, che aveva lo scopo di fiaccare ogni possibilità di resistenza dei nostri caposaldi, aveva raggiunto i risultati prefissi, entravano in azione nuove formazioni composte, questa volta, quasi esclusivamente di carri: quattro o cinquecento alla volta. Non poteva esserci, da parte nostra, alcuna possibilità di resistere ad una simile potenza. Tuttavia, dal 23 ottobre al 4 novembre, malgrado la apertura di una pericolosa breccia nel Settore ceritrale del fronte, le nostre truppe ressero magnificamente alla prova. Il 2 novembre, anzi, con il sacrificio, pressoché totale dei reparti corazzati italo-tedeschi, Rommel riuscì a ridurre ad appena due chilometri la penetrazione avversaria. A questo risultato, superiore ad ogni speranza, cooperarono magnificamente le divisioni attestate nel settore meridionale del fronte (in primo luogo quella meravigliosa unità che era la divisione paracadutista « Folgore ») le quali avevano respinto sulle prime linee ogni attacco, distruggendo circa trecento carri armati nemici. Ma la sproporzione delle forze in campo era troppo forte. Ai duemila e più carri armati nemici noi potevamo opporre, al sesto giorno di combattimento, non più di 70 carri tedeschi e di 260 carri italiani. Perciò, malgrado i miracoli di eroismo di quasi tutte le divisioni schierate nella stretta di El Alamein, Rommel (che aveva dovuto con amarezza constatare come lo sfondamento fosse stato operato proprio in un settore tenuto da truppe tedesche) decise il 4 novembre la ritirata. Era però troppo tardi: dalla breccia operata nel nostro schieramento i carri armati britannici dilagavano già verso il mare, ripetendo con successo la manovra tentata, due mesi prima, dagli italo-tedeschi. La battaglia era persa e con la ritirata cominciava la tragedia del nostro corpo di spedizione in Africa. Tuttavia, malgrado l'esito sfortunato della lotta, il popolo italiano può ricordare El Alamein con giustificato orgoglio. Su quel pezzo di deserto, infatti, la nostra gioventù scrisse pagine di sovrumano valore, cedendo solo alla potenza infinita del numero. Ne fanno fede i morti della « Folgore », distrutta ma non vinta e i carri dell'Ariete che, lanciati nell'ultimo disperato contrattacco, scomparvero nel fumo della battaglia circonfusi da una luce di leggenda.
Agosto 1942. Mussolini appunta un'alta decorazione al valor militare sul petto di uno dei piloti dell'Arma Azzurra che avevano partecipato ad una eccezionale impresa: il collegamento aereo fra l'Italia e il Giappone. Volando per migliaia di chilometri, in massima parte sul territorio nemico, i nostri aviatori erano riusciti, un anno prima, a raggiungere i territori asiatici controllati dall'alleato nipponico e di qui a portarsi fino a Tokio, accolti dall'entusiasmo e dall'ammirazione di quelle popolazioni. L'eccezionale raid aveva soprattutto un significato morale e propagandistico: voleva dimostrare che il Tripartito combatteva unito contro lo stesso nemico, malgrado l'immensa distanza che divideva i tre stati della coalizione totalitaria. Al raid aereo fecero seguito i viaggi di alcuni sommergibili oceanici di base a Bordeaux, i quali portarono in Giappone strumenti di alta precisione e tornarono con un carico di metalli pregiati, di gomma e di materie prime indispensabili, ormai
introvabili in Europa.
Estate 1942. Alcune navi ospedale italiane, reduci dall'Africa Orientale, negli scali del porto di Genova. Dopo lunghe trattative effettuate per il tramite della Croce Rossa Internazionale, il Governo italiano aveva ottenuto dagli inglesi di poter rimpatriare dall'Impero un certo numero di donne, di bambini e di ammalati. L'Italia voleva così risolvere nell'unico modo possibile il problema rappresentato dalla popolazione civile dell'Africa Orientale la quale dopo l'occupazione inglese, era stata in gran parte deportata ed aveva, dovuto subire penose traversie, rese più gravi dal rigido e spesso inumano comportamento delle autorità di occupazione. Le nostre navi ospedale, effettuata la circum-navigazione dell'Africa, imbarcarono i civili a Massaua e quindi rifecero il viaggio in senso inverso. Durante il lungo percorso si rifornirono, secondo i patti, da petroliere appositamente allestite e furono costantemente sotto il controllo di navi e di aerei nemici. Lo sbarco delle famiglie dei colonizzatori africani suscitò vivissima commozione in Italia. Molta impressione destarono le testimonianze sulla brutalità britannica, verso i nostri connazionali.
Il dramma dei convogli |
Malgrado i grandi successi ottenuti sul mare nelle battaglie di mezzo luglio e di mezzo agosto, durante l'estate del 1942 la nostra marina mercantile, impegnata nei rifornimenti alle truppe operanti in Libia, subì gravissime falcidie. Le perdite furono particolarmente sensibili in agosto e in settembre, periodo nel quale furono affondati ad opera degli aero-siluranti dei sommergibili britannici numerosi piroscafi carichi di armi, munizioni e carburanti destinati alle truppe di El Alamein. Poi, nei mesi successivi, le perdite continuarono ad aumentare, fino a quando, nello ottobre, non vi fu praticamente un solo convoglio a giungere intatto sulla sponda Africana. Questo aggravarsi della situazione era dovuto al potenziamento della base aero-navale di Malta ad opera dell'avversario il quale vi aveva fatto affluire diecine e diecine di aerei ed aveva iniziato, da quella centralissima posizione, una serie ininterrotta di attacchi al nostro traffico mercantile. L'aviazione italo-tedesca, che nei mesi precedenti aveva ridotto quasi al silenzio l'isola, cercò di ripetere l'impresa ma non aveva forze sufficienti per ottenere risultati soddisfacenti. Le gravissime perdite subite nei primi attacchi (70 apparecchi su 150 furono abbattuti in un solo giorno dalla difesa britannica) la costrinsero ben presto a desistere e a limitarsi alla difesa ravvicinata dei convogli, ma con scarso costrutto. Non ebbe migliori risultati nemmeno il dirottamento di gran parte del traffico verso i porti dello Jonio e dell'Egeo, dai quali i convogli, sotto la protezione delle navie degli aerei dislocati a Creta, venivano avviati a Tobruk. Anche quella rotta, infatti, poteva essere facilmente intercettata dagli aerei britannici di base a Malta. Del resto i nostri comandi navali avevano ben poca libertà di scelta. Come si dimostra nella cartina i convogli per l'Africa Settentronale potevano seguire solo tre rotte obbligate, tutte nel raggio d'azione dell'aviazione nemica. Riusciva quindi facile ai britannici (anche con l'aiuto di un ben organizzato servizio di sabotaggio in Italia) conoscere l'entità, la rotta e la posizione dei nostri convogli. In basso un convoglio italo-tedesco, in navigazione. |
Agosto fu un mese terribile, per la nostra marina mercantile, già falcidiata da due anni di guerra (ed anche dalla perdita secca subita all'inizio del conflitto, quando i milione e 300 mila tonnellate di naviglio erano rimaste bloccate in porti neutrali o nemici). Infatti, in previsione di una grande offensiva di Rommel verso Alessandria, i britannici intensificarono i loro attacchi contro i convogli, allo scopo di tagliare all'avversario l'unica e già insicura via di rifornimento, Particolare accanimento dimostrarono i britannici contro le petroliere, che trasportavano il carburante indispensabile all'armata corazzata italo-tedesca. Il comando inglese sapeva che le riserve in Africa Settentrionale erano ridotte al minimo e che il mancato arrivo di qualche petroliera ci avrebbe messi automaticamente in crisi. Nelle due foto in alto uno sciame di aerosiluranti britannici « Bristol Beaufighter » si avventa contro un convoglio italiano in navigazione a sud di Creta. Nella foto di centro è visibile il siluro sganciato a distanza ravvicinata. Nella foto in basso il risultato dell'attacco: un piroscafo carico di munizioni, centrato in pieno affonda nei pressi della costa. |
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